WHERE I LIVE

  • Giugno 3, 2012

Ghe xe ‘a moquette? mi chiedevano tutti a casa, durante le vacanze di Natale, quando raccontavo che da gennaio sarei andato a vivere con una famiglia, non lontano da dove avevo vissuto a Londra fino ad allora (qui trovate il vecchio appartamento, qui dove sto ora).
Da gennaio vivo così a casa di una famiglia inglese, composta da mamma e due figli, Beth e Bobby (il padre vive altrove; le separazioni nel regno Unito sono molto diffuse), che di cognome fanno Hibbert come il dottore dei Simpson (ma sono bianchi): Beth ha lavorato a tempo perso al Fat Cat tra l’estate e l’autunno e quando le ho raccontato che avevo bisogno di un nuovo posto dove stare è venuto fuori che sua mamma voleva da tempo affittare una stanza in disuso che hanno a casa, e quindi eccomi qui.
Non mi dispiaceva l’idea di andare in famiglia, come quando vai in vacanza in Inghilterra a “studiare” (con tutte le virgolette del caso) inglese d’estate da adolescente: mi attirava l’idea di stare più tranquillo. La casa è pulita, elegante e soprattutto economica.
Beth sta per finire le superiori e comincerà a studiare filosofia e teologia ad Oxford, una delle università più prestigiose al mondo, a settembre. La ‘mamma’ (che a conti fatti, dato che i figli sono adolescenti, rispettivamente di 18 e 16 anni, non può che avere pochi anni più di me), è giornalista in una pubblicazione settimanale di informazione medica.
Insomma, una buona famiglia inglese. Mi trovo bene, mi hanno accolto bene, sono gentili con me.

Ho accesso a tutta la casa e naturalmente posso usare la cucina (indipendente: non mi fanno da mangiare) e mi piace pensare di essere a impatto ambientale minimo: cerco di non sporcare e di non fare rumore, ma è praticamente impossibile stare leggeri, dato che sì, c’è la moquette, praticamente sul 90% della superficie interna (tranne in bagno e cucina), ma sotto ci sono assi di legno che corrono lungo tutta la casa, e in pratica a ogni passo che fai ti autospaventi e pensi che ci siano i ladri: scricchiolano tutte!
È una tipica casa a schiera inglese, in odor di Billy Elliot (nel senso che mi ricorda il vicinato tutto uguale in cui Billy nel film cresce e muove i suoi primi, timidi, passi di danza, ma è un senso di déjà vu che, in fondo, si può applicare a ogni angolo urbano inglese), più lunga che larga, su 4 piani, piccolina. Sembra la casa delle bambole, per noi abituati a spazi maggiori. Ha un po’ di giardino (le foto sono state scattate durante i miei primi tempi qui; ora è naturalmente più rigoglioso), quel tanto che basta per sentire la terra sotto i piedi e pensare di possedere un fazzoletto di campagna in città (anche se formalmente la terra appartiene a sua Maestà, che proprio oggi tra l’altro fa 60 anni di regno, e tu la compri in usufrutto per 99 anni).
Ho trovato subito anche una similitudine con la casa di Cavazzale dove sono cresciuto, dato che anche qui l’umidino, cioè il contenitore dell’umido (fondi di caffè, bucce di banana, gusci d’uovo etc.) vicino al lavandino della cucina, (l’anticamera di un umido più grande che da noi, a Vicenza, sta in terrazzo; qui è un contenitore per il compost che sta in giardino), è la vaschetta riciclata di una confezione di gelato Carte D’Or come da noi istituito a suo tempo dal papà!
Ah, e c’è anche un gatto, Harry, con cui non ho molta familiarità.
Mi ricorda, in questo contesto da immaginario collettivo anglosassone dove non c’è campanello alla porta d’entrata (si bussa!) e anche i cuscini hanno le piume d’oca vere al loro interno, che potresti farci a botte e saresti sommerso dalle piume come nei film, i gatti illustrati nei libri di lettura di scuola della mia infanzia (nella foto n 13 è sul tetto che guarda sornione un uccello).

A me è toccata la stanzetta in alto, all’ultimo piano, che dà sul retro, sul giardino e su quello degli altri.
Ancora una volta, con il lettino e la scrivania, mi ricorda quella di Pollyanna/Lovely Sara/Anna dai capelli rossi/Heidi (anche se a me si addice più il personaggio di Clara, la ragazza in sedia a rotelle, dato che ho sempre freddo alle gambe e quando scrivo, anche ora che è quasi estate, ho sempre una coperta appoggiata sulle gambe). Ricorda quella di Vancouver, la mia prima sistemazione là nella casa col tappeto di cernia (avevo introdotto anche allora questa uguaglianza), ma è più luminosa e accogliente, e ha in fondo tutto quello che mi basta: un letto singolo, una scrivania, un caminetto che però non funziona, ma fa elegante e le mie stanze, e un armadio a stecche che mi ricorda quello a muro di ET nella scena in cui si nasconde tra i puotti.
“Quanti quadri!” ha esclamato Giovanna quando gliel’ho fatta vedere via skype, commentando i muri bianchi e vuoti, che ho scoperto solo in questi giorni, a un’attenta analisi, essere ricoperti da carta da parati… bianca!
L’ho abbellita, dopo il ritorno dalla domenica delle palme, con… un rametto d’ulivo!

La mia finestra è il mio occhio sul mondo, e lo sguardo mi cade su questo piccolo quadrato londinese circoscritto. Quando piove (è senza scuri, ma ha una tenda spessa che dovrebbe, in teoria, bloccare la luce) lo fa contro il vetro, proprio come alla tele, con le gocce che rigano il vetro e tu che guardi fuori con la colonna sonora da carrellata degli sfigati, tutti quelli che nell’episodio hanno avuto una brutta giornata.
Vedo gli edifici tutti uguali in ripetizione: mi ricordano, ogni volta, gli studi di posa ripetuti che ci sono all’inizio del logo animato della Warner Bros che vedi al cinema.
Vedo le altre finestre senza tende, le cucine che si animano, un vecchio che esce ogni tanto dalla doccia, e assisto alla commedia umana che nasce e muore ogni giorno, le luci che si accendono e trasmettono alore umano, familiarità, casa.

Vedo anche, oltre, i grattacieli della city, con il Gherkin, fatto a suppostone, e il nuovo Shard (scheggia), disegnato da Renzo Piano, che, una volta completato (lo è quasi, rispetto a quando ho scattato la foto), sarà l’edificio più alto d’Europa.

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neanche d repubblica fa servizi sulle case così!