Mi immagino che tra le cose che manchino di più agli italiani, oltre al poter aprire la porta di casa senza infrangere la legge, ci sia andare al bar a bere un cappuccino, uno di quei lussi quotidiani che distinguono un popolo intero.
Quando lavoravo al Fat Cat Cafe a Londra ero diventato il mago del cappuccio, o almeno così credevo. All’epoca, sto parlando di 8 anni fa, ho omesso di scrivere un post sul blog… apposta. Perché mi vergognavo. Come una Cuccarini qualsiasi che va alla convention Algida e viene scoperta da Pippo Baudo – storia del costume italiano – la marca del caffè fornitore del bar sponsorizzò per me un “seminario di chicchi di caffè”, una scusa come un’altra per perdere una mattinata. Naturalmente io mi sentivo il secchione: erano mesi che lavoravo al Fat Cat, quindi alla volta della spiegazione sulla differenza tra la qualità arabica e robusta (pronunciato, ahinoi, ro-bA-sta) guardavo tutti con sufficienza, come a dire: Ma non ce lo avete Nino Manfredi nella Perfida Albione?! Sta di fatto che alla fine facciamo un test e io rispondo in fretta, in maniera sbrigativa: ho solo voglia di fare shopping su Islington Road. Il risultato che mi arriva è a dir poco sorprendente: prendo 5. Su 10. Proprio come un voto all’italiana. Tra l’altro il 5 era scritto a lettere cubitali. Enorme. Ho tenuto il “diploma” della mattinata, con votone insufficiente in bella vista, perché mi feci tenerezza da solo, e ce l’ho ancora da qualche parte a casa dei miei.
Però la foglia di latte caldo sul cappuccino, al Fat Cat, imparai a farla. Solo che non sapevo che 8 anni dopo non me la sarei più ricordata.
Durante il periodo in cui sono stato senza lavoro, lo scorso anno, quando stavano per finire i soldi del sussidio di disoccupazione, Milo mi diceva che, al limite, sarei potuto andare da Berry.
Da Berry era il nostro gergo in codice per dire che c’era un’ultima spiaggia, un cuscinetto di sicurezza, un porto sicuro a cui approdare in caso Netflix, con tutti i CV che gli avevo mandato in quei mesi, avesse smesso di usarli anche per pulircisi il c**o. Berry è un bar carino del vicinato. Ci eravamo andati una volta sola, a dir la verità, ma avevamo visto qualche volta che cercavano personale.
Un giorno ho inviato un’email, in olandese basico, mi piace pensare qualcosa che potesse suonare più o meno come IO ESSERE ITALIANO, IO VOLERE LAVORARE, IO FARE CAPPUCCIO in cui postillavo con un bel PS: E so anche fare la foglia sul caffé!!! Proprio così, punti esclamativi e tutto.
Voglio dire: la foglia sul caffè rappresenta tutto un mondo, indica tomi di romanzi nel cassetto mai pubblicati, hipster col berretto di lana anche a 40 gradi, salopette spessa una bretella su e una giù, baffi da circense francese inizio ‘800 e collezione di vinili ereditata dal babbo. A Pinterest ci dev’essere tutto un building dedicato.
Sta di fatto che poi un lavoro a tempo pieno l’ho trovato e Mal che vada, andrai da Berry è stato archiviato nel lessico famigliare per quando sarebbero arrivate vacche più magre.
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Qualche settimana dopo che avevo iniziato il nuovo lavoro, Berry in persona mi ha chiamato, o meglio, non lui, che non esiste, un po’ come non esisteva un vero gatto ciccione a Londra, ma la manager del locale, che mi ha confessato che aveva molto riso alla mia postilla. “Vuoi venire a farci vedere la tua foglia?”, mi ha chiesto al telefono. Ho pensato: perché no, magari un giorno ci ripenso, e così ho accettato di fare una prova, un sabato mattina di buonora.
Arrivo molto presto, la prova è ad un orario strambo, tipo dalle 8 alle 9:45.
I clienti sono ancora pochi e le mansioni che mi vengono assegnate sono minime: caricare la lavastoviglie, sbucciare le banane per il banana bread, ammucchiare i cucchiaini nel giusto cassetto. Chissà se anche qui, penso, dopo le posate diventa migliore.
È un giorno di pieno inverno ma, strano a dirsi, c’è il sole. È timido, ma scalda quel poco. L’aria è frizzante e guardando fuori dalle grandi vetrate del bar, accogliente come un salotto per volere dello stesso “Berry”, mentre passo i cucchiaini al canovaccio respiro quel senso di libertà e spensieratezza, di mente sgombra, che provavo al Fat Cat per tutto l’anno in cui ho vissuto a Londra. Quando l’unica cosa che può andare storta è che non ti monti bene la schiuma del cappuccino, non ci sono email a cui rispondere, né telefonate da fare con orecchi tesi che ascoltano se hai risposto bene, o l’ennesimo training a cui partecipare.
Alla fine c’è la prova del nove: la foglia sul caffe. Tutto spavaldo mi avvicino alla macchina dalla carrozzeria scintillante, appena uscita da un romanzo steampunk, e aziono lo sbuffo che monta il latte.
Inutile dire che mi è venuto uno sgorbio che anche a volerlo disegnare non mi riuscirebbe. Ho provato e riprovato ma niente, il tocco se n’era andato.
Non sapremo se l’avrei recuperato perché, per quanto ci stessimo simpatici “Berry” e io, il gioco non sarebbe valso la candela: garantivano pochi turni, a paga minima. Il sogno di fare come il protagonista di City di Baricco, genio bambino che pulisce i cessi senza pensieri, resta lì, ma per un attimo è stato bello assaporare la libertà di fare pochi metri a piedi ed essere già arrivato al lavoro, accendere la macchina e tirare fuori i tavoli preparandosi il primo caffè in solitaria. Ci siamo però promessi che sarei diventato un habituè.
Non sono più tornato da Berry. Il coronavirus è arrivato anche nei Paesi Bassi, purtroppo, il Primo Ministro ha parlato alla nazione – non succedeva dal 1973 – e Berry ha chiuso.
Speriamo riapra presto. Se manca anche il piano B è finita, è importante che ci sia.
Perché, mal che vada, vado da Berry.