PACIFIC STANDARD TIME

  • Dicembre 4, 2010



Il cielo dell’America son mille cieli sopra a un continente

Francesco Guccini, Canzone per Silvia

A Vancouver, come in quasi tutta la costa ovest del Nord America, vige il PST, Pacific Standard Time: -8 ore rispetto al tempo ufficiale ‘0’ del meridiano di Greenwich, e -9 ore che in Italia.
Quando a Vicenza è mezzogiorno, in British Columbia (tranne che in alcune zone a est, cioè verso il centro del Canada) sono le 3 di notte (trucchetto che uso io per calcolare la differenza: all’ora di Vancouver sottraggo 3 e poi tramuto il risultato in 12 ore avanti, esempio: 17-3=14, cioè 2 del pomeriggio, cioè 2 di notte in Italia. Viceversa con l’ora di Vicenza: aggiungere 3 e sottrarre 12. Va anche detto che ho due cellulari: uno con scheda e ora canadese, uno con scheda e ora italiana!).

A me pare che a Vancouver, di notte, il cielo sia molto più chiaro che a Vicenza. Francesco (Mursia, non Guccini) dice che è un effetto dell’inquinamento luminoso (può ben essere: nella Città di Vetro gli appartamenti non hanno finestre ma pareti trasparenti che lasciano intravedere le luci interne) ma io spero che, nel luogo in cui è nata Greenpeace, siano molto attenti ai problemi ambientalisti e questo inconveniente sia stato superato.
Mi piace invece pensare che siamo più vicini al polo rispetto all’Italia, e per questo c’è un’altra luce!
E’ ovviamente una balla: prima di arrivare al polo ci sono migliaia di chilometri di distanza (Vancouver è sullo stesso parallelo di Norimberga).
Però diciamo che da qui in su ci sono soprattutto foreste e che gli abitanti del Canada si ‘ammassano’ lungo i confini meridionali del paese (quindi forse ha ragione Francesco…: la leggenda vuole anche che la densità di popolazione di downtown, il centro della città, sia la più alta di tutto il Nord America), e che più in su vai più la densità di abitanti si avvicina allo zero. Si sappia che il Canada ha una superficie di poco maggiore di quella degli Stati Uniti (9.984.140 contro 9.372.614 km²) ma vi abitano 34 milioni di abitanti contro i 310.578.000 di americani.

Però di notte c’è davvero una luce particolare, da fine del mondo, come se ci fosse sempre la luna piena. Mi immagino però, allo stesso tempo, quanto siano distinguibili a occhio nudo tutte le stelle e le costellazioni, solo qualche chilometro più in su di qui (quindi do ragione a Francesco, in questo modo!). Magari prima o dopo vado a dare un’occhiata (prima lascio passare questo freddo).

Raffiguro Vancouver come l’ultima roccaforte di civiltà del pianeta, un faro di controllo, su a nord: andando a ovest, quindi viaggiando seguendo la successione di dì e notte, solamente l’Alaska, più in alto, ha un’altra grande città, Anchorage, la capitale.
Dopo, il giorno muore, è finito, e non c’è più nessuna possibilità di riviverlo.
E così, mi immagino a volte come il guardiano del mondo: quando ci svegliamo qui, la maggior parte delle cose, nei luoghi che contano per me o che fanno la storia del pianeta ogni giorno (l’Europa, New York, Washington…), sono già successe, e alcune parti di esso stanno già andando a dormire o addirittura si stanno per svegliare (alle 8 di mattina, qui, in Australia sono le 3 di notte del giorno dopo).

Noi, qui, ‘chiudiamo il giorno’, siamo gli ultimi a spegnerne la luce.

Quando mi sveglio accendo il pc e leggo le notizie, già quasi scadute, dell’Italia e dei miei cari: sull’email, su facebook. Mi piace sapere cos’è successo e com’è stata la loro giornata. Mi pare che ci siano meno cose da sbrigare, da noi, nell’organizzazione del mondo, perché il grosso è già stato fatto.

Spesso, di conseguenza, di notte mi addormento alle 3 (perché a quell’ora mi sento sereno, o almeno non mi faccio un caffé: per Gujo!) perché, nel frattempo, a casa tutti si sono svegliati e hanno ricominciato a scrivermi, a rispondermi, e posso scambiare email al volo con botta e risposta immediati. Poi crollo.

Una volta leggevo racconti di piantatori di tè e proprietari di piantagioni di gomma che morivano in climi torridi e venivano sepolti il giorno stesso, per paura della putrefazione, in terre lontanissime da casa. Crescere a West Vancouver, almeno in parte, significava sentirsi nel bel mezzo del nulla: crescere in un’astrazione priva di storia e ideologia situata sul ciglio malfermo di un continente. Oh come mi immedesimavo in quei piantatori di tè letterari! Venire sepolti ai confini del mondo significa porsi dei dubbi sul significato della propria esistenza.
Chi siamo veramente, se non abbiamo un panorama da dire nostro?

Douglas Coupland, Memoria Polaroid

Blog Comments

Post fantastico, la frase finale di Coupland la vorrei come epitaffio funebre – sì, tocchamoci tutti.
Grazie per la strofa bersaniana dedicata, guardiano del mondo!

🙂