MY TIME IN BROOKLYN / 001

  • Luglio 26, 2010

“63 3rd place 4r, bottom buzzer. Building is on the right, much nicer inside than outside” è l’SMS che Joel mi ha inviato per spiegarmi come arrivare a casa sua.
Ero ancora sotto la ‘giurisdizione parentado’ ma dovevo trovare un posto dove stare per quando avrei dovuto lasciare la casa di Michael (dove tornerò ad Agosto, dopo il giro in macchina con lo Zoccolo Duro – Matteo, Filippo, Giampi – che tra 10 giorni vengono qui e mi portano via come Ammaniti/Vasco!!!).
E così, dal 4 al 15 luglio, per 11 giorni, ho vissuto, e mi sono perfettamente lì isolato, a Carroll Gardens, uno dei quartieri di Brooklyn (per gli appassionati di mappe, cioè la mamma, vuol dire qui).

Per i turisti la cui sola meta, a New York City è Manhattan (anche io, con Serena, sono stato uno di questi, nel ’98), Brooklyn è erroneamente considerato un quartiere. In realtà è uno dei 5 boroughs (distretti), come già detto , che dal 1898 formano la città di New York (gli altri: Manhattan, Queens, the Bronx – il perché dell’articolo mi è per ora ignoto – e Staten Island).
Si tratta di una vera e propria città (indipendente appunto fino al 1898) ancora più estesa di Manhattan, e ancora più popolata: vi abitano quasi 3 milioni di persone.

Joel è uno dei curatori del sito di arte e politica www.guernicamag.com (ha una riproduzione del quadro di Picasso in soggiorno). Ho trovato il suo annuncio, va da sé, su Internet. Avevo poco tempo per cercare, in quei giorni, e comunque sono tendenzialmente pigro, così, dopo un po’ di contrattazioni, ho deciso di affittare la sua casa, seppur per un tempo limitato che mi avrebbe per forza costretto nel giro di qualche giorno a trovare un’altra sistemazione (quella da cui sto scrivendo ora), perché l’offerta era irripetibile: stava per andare dalla sua famiglia in California e quindi aveva bisogno di affittarla (cioé di soldi), ed io avevo bisogno di un posto dove stare.

Da solo!!



L’ androne del palazzo, ancora una volta, era poco illuminato, sporco, con aria viziata, e pieno di madonne e madonnette (Brooklyn è piena di italiani, congelati nel Sud degli anni ’60).
L’appartamento invece era carino, vecchio nel senso più nobile del termine (vissuto, affascinante), luminoso e spazioso, con caminetto in camera (che per altro, mi ha confessato Joel, non viene mai usato) e, oltre all’aria condizionata, anche una ventola sul soffitto che mi ha permesso di giocare, il primo giorno che ero lì, coincidente con il primo giorno di caldo afoso a New York, a Martin Sheen disteso sul letto in Apocalypse Now.

Il caldo e la pioggia sono stati i motivi che mi hanno fatto isolare per quei giorni a Brooklyn, immerso nella lettura oltre che nel piacere di sentirmi da solo in una delle metropoli più grandi del mondo.

Joel mi ha poi spiegato che prima che ci abitasse lui, lì ha vissuto uno scrittore di nome Jeff Sharlet che, proprio tra quelle mura, ha scritto il libro di denuncia politica The Family: The Secret Fundamentalism at the Heart of American Power, che ha avuto un discreto successo in America nell’estate del 2008! (vedi: qui).







Così come riportato da Paolo Cognetti nel suo libro da me più volte citato, New York è una finestra senza tende, anche Joel usa il terrazzino delle scale antincendio per farci crescere erbe aromatiche.
Già prima che entrassi in casa mi aveva scritto un’email dicendomi che in frigo mi aveva lasciato della verdura che si fa arrivare da una fattoria upstate, e che sarebbe stato meglio che non la buttassi via (non sono sicurissimo della consecutio, qui…!!).
Come sapete, sono un simpatizzante della causa ecologista, e quindi, anche se abbastanza insapore e non familiare ai miei occhi e nei nomi citati nell’email (evviva Google immagini che mi ha permesso di identificare: a squash, some chard, scallions, cohlrab etc.) l’ho mangiata.
Scallions ho capito che poteva essere scalogno, o un suo parente alla lontana, comunque sapeva tutta tendenzialmente da sioetta, da erba cipollina…

La mia passione per gli orizzonti e le altezze mi ha fatto salire la scala arrugginita che portava sul tetto (l’appartamento è all’ultimo piano) e, non senza aver insospettito qualche vicino, ho potuto vedere da lì, oltre al Ponte di Verrazzano là in fondo, anche, indovinate un po’?, downtown Manhattan.