… E UN PARTIGIANO COME PRESIDENTE

  • Dicembre 23, 2010
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All’interno della main hall dell’Italian Cultural Centre, per i diversi banchetti, viene noleggiata la sala, la cucina col servizio catering, e il servizio vero e proprio. Non si tratta cioè di un ristorante: gli eventi consistono in cene in cui i partecipanti si siedono a tavola, li servi una volta per poche portate, e poi è finita. Dopo la fine della cena, in genere, i vari Snooki, Supermario, e le zie Adelina, chiacchierano, bevono qualche bicchiere preso dal bar, ballano. Per cui tu per due ore ti rompi i maroni e giri per i tavoli giocando a Pacman col vassoio vuoto in mano: vinci quando trovi un bicchiere di plastica vuoto da buttar via o una bottiglia di birra finita da portare al bar, così hai qualcosa da fare. Le luci sono sempre molto basse, caratteristica che rende più eccitante il gioco, specie se il vetro della bottiglia è scuro e tu non capisci se la birra è finita o no. Se la prendi e ce n’è ancora sei spacciato, e la figura di mela è assicurata.

L’ultima volta che ho fatto il cameriere è stato nel 97/98 ai Due Fogher: coi soldi guadagnati sono andato con Serena in America per la prima volta nell’estate del ’98 spendendo fino all’ultima lira (che allora, Vanna, c’era). In un curioso contrappasso, per guadagnarmi da vivere ora, in continente americano, son tornato a fare il cameriere.
In Italia, un servizio del genere sarebbe improvvisato: ognuno fuori in sala, e tutti facciano qualcosa. Qui, invece, tutto è gerarchizzato che manco un esercito: c’è il catering manager, che non fa nulla e tace ma si mette a posto tutto il tempo giacca e cravatta, e ha origini asiaghesi come me ma non spiaccica una parola di italiano, la catering operator, iraniana, due supervisor, uno cinese e l’altro boh, si chiama Thenna, nome femminile giusto perché finisce in A, e per quanto mi riguarda potrebbe essere indiano, latinoamericano, o afroamericano, i servitori, ognuno con una propria area da gestire da 3 a max 6 tavoli (il che circoscrive il tedio e lo porta alla massima potenza) e poi gli aiuto-servitori o busser. Io all’inizio sono stato aiuto-servitore, poi, dato che sono bravetto, mi hanno promosso a server e a me è venuto lo stesso mal di pancia di quando facevo il chierichetto in quarta elementare (non mi ricordo assolutamente perché, ma miracolosamente in quinta non l’ho più fatto), e da semplice aiuto-moccolo mi è toccato “servir messa”, combinando tali disastri che solo a ripensarci mi viene il cagotto.
Se è vero infatti che tale padre, tale figlio, io devo essere l’eccezione che conferma la regola: il papà ha costruito tante cose in vita sua, che ancora usiamo. Ha fatto il Rossi, ha sempre lavorato da quando è nato, e con la manualità se la cava bene. A casa invece io sono sempre stato preso in giro per le mie man de puina: sono un bambino prodigio sfiorito presto, come metà dei bambini (avevo molta dimestichezza col disegno) e dove passo combino disastri. La Vanna chiama le mie marachelle (con tanto di: sudorazione accelerata, faccia rossa colpevole da mani nella marmellata, saliva a zero, pomo d’Adamo ipercinetico): i guaietti del Dalsa.
Finora, però, non ho rovesciato mai il vassoio, e spero non siano le classiche ultime parole famose.
Merito anche della mia trainer iraniana, Shadan, alta 1 metro e 20 se tutto va bene e con l’apparecchio, che mi ha allenato per 3 sere. La quarta sera abbiamo fatto lo scambio dei ruoli: io ero il server e lei faceva la mia busser, e alla fine della serata, tutta seria, mi ha portato in ufficio e mi ha dato i voti. Mi pareva di essere in Undercover Boss, quel programma dove i grandi C.E.O. – lei, in questo caso – d’America vanno, appunto, undercover, travestendosi (ogni volta: occhiali e parrucca) da ultimo arrivato e facendo sempre delle grandi figure di menta. Comunque sono andato bene, e mi ha dato più. Solo, magari, devo sorridere un po’ di più (osservazione mossami anche da una cliente ai Due Fogher: wow, come faccio tesoro delle lezioni della vita!!).

A spezzare il tedio c’è che durante la serata fai mezz’ora di pausa per mangiare. Per quello so che sapore ha il cibo che serviamo. Anche questa cosa sarebbe impensabile in un ristorante italiano, dove a volte non puoi neanche bere la coca della soda fountain. Io, infatti, all’inizio non ho capito: ti vengono a prendere il mezzo alla sala e ti dicono, come domanda retorica, Vuoi incontrarmi in cucina tra un minuto? Io penso: che è, Inkognito? E penso anche: posso dirti di no?
Nella forma dell’inglese ‘gentile’ non esiste l’imperativo: è tutto un vuoi?, e c’è quasi sempre associata una mansione non simpaticissima. Vuoi svuotare il cestino? Vuoi raccogliere la forchetta? Vuoi dar l’acqua ai gerani (il correttore mi dice gerani e mi dà sbagliato geranei…)? Io ogni volta penso: NO! NO! NO!
In questo caso la mansione era simpatica. Le prime volte mi imbugavo fino a star male, altro tipico mio, e il resto della sera rallentavo il mio Pacman, poi ho diminuito la razione.
Altre volte, invece di dirti vuoi?, ti cercano per la sala finché non ti trovano (sempre per via delle luci) e ti dicono, cattivi: You’re on break!, toccandoti il braccio come se ti dessero il tajo: allora devi mollare immediatamente quello che stai facendo, e andare a mangiare tassativamente per mezz’ora.

Tra i miei colleghi, età media 20, tutti facce da pubblicità 0-12, ci sono almeno 3 sosia di mie compagne di classe. Resto in particolare ore a guardarne una, come in trance, perché è identica alla Ilaria V., ma… di colore. Identica!

In dotazione abbiamo tutti una divisa, con la cravatta fasulla con la clip (in foto le mie occhiaie, sempre peggiori) , tipica di qui, e secondo me anche emblematica dell’ipocrisia del concetto di servizio (vedi i vari vuoi? e il sorriso forzato). C’è anche un gilet: io lo chiudo fino all’ultimo bottone, come dovrebbe andare (lo so, anche questa una forma di ipocrisia, quindi mi dimostro incoerente).
Ovviamente ce l’hanno tutti abbottonato, solo noi italiani badiamo a queste cose. Gli anglosassoni sono pragmatici: se c’è, andrà usato (hanno ben ragione!). ‘nira mi vede e mi dice: “Guarda che ti sei dimenticato un bottone”. Io rispondo: “No, è fatto apposta, è un vezzo vestiario, sai, sono italiano…”.
E un secondo dopo, tutti se lo sbottonano.

Blog Comments

Grandissimo, un re dell'italian-style! (tutti che si sbottonano dopo di te: mi piace credere che sia veramente andata così…). Ti vogliamo protagonista di un episodio di Il boss delle Torte (hmmm… qualcuno ha scoperto Real Time da poco e non ha più una vita propria?)

Quando ero a Torino mi stupivano (a me stupivano, alla mia amica Mari palermitana provocavano l'orticaria, infatti se n'è scappata a Roma) certi modi di dire comuni, come "Hai voglia di…?", anche lì usati per le mansioni più sgradevoli (tipo: "hai voglia di sgrostare il forno?", dove qualche coinquilina aveva fatto esplodere qualche cibo più o meno commestibile).
Si diceva anche "Fai che…", ma non ho mai capito bene come usarlo.

Ahah, sì, più o meno la stessa cosa! Le ragazze torinesi con cui abbiamo appena convissuto dicevano: "Vedi che…" ma anche lì non ho capito come usarlo, e se alla fine ci andava un punto di domanda o cosa! Buon Natale Silvia!

mamma gujotto hai visto la pazzesca puntata del boss delle torte, quella del 24 dicembre con i clienti che facevano la fila per ore lungo tutto l 'isolato per comprare torte??..una vita con realtime?non esiste più!ora so tutto su come trasformare na scatola da scarpe con la colla a caldo(ovviamente x natale..me la sono comprata..)in un porta formaggio, che tovaglie inutili di chiffon usare se ci si sposa, vincere cortesie per gli ospiti, o come investire un milione di euro (spiccioli proprio) per comprare disperatamente casa.. ps:x sgrìsole:quando in negozio rispondo al telefono dovrei dire buongiorno negozio blabla sono blabla ..incosapossoesserleutile?beh io tolgo sto pezzo perchè ho sempre paura che il cliente mi risponda..incosapuoiessermiutile? go sette camise da stirare, vienla?