Tutti etero finché non parte la Carrà.
Saggezza popolare
La mia passione per la TV è nata con i cartoni animati giapponesi, scoperti in prima elementare.
Da quando, cioè, sono Yu.
Yu Morisawa che si trasforma in Creamy mi ha segnato per sempre: nessuna serie di telefilm o cartone animato ha solcato così a fondo il mio immaginario.
L’altro giorno la mia amica Alessandra mi ha chiesto come mai Madonna e Kelly (sic) Minogue siano icone gay.
Prima ancora che potessi mettere insieme una risposta sensata, intorno a me si erano già formate le onde sonore del flashback: ero già indietro con la memoria agli anni ’80, che in fondo non se ne sono mai andati.
Dando per scontato che la Carrà:
a. con quel movimento di capelli lì mentre
b. si spacca la schiena mentre
c. muove la gonna del vestito a farfalla mentre
d. canta Ballo ballo ballo
potrebbe tramutare in gay anche Warren Beatty –
insieme alla sacra triade Heather Parisi, Lorella Cuccarini e Santa Cristina d’Avena, L’incantevole Creamy è stata una vera e propria icona, l’altro fenomeno che ha reso irrimediabilmente e irreversibilmente gay un’intera generazione di bambini nati verso la fine degli anni ’70.
Passata la celebre onda robotica dei cartoni considerati violenti – con funghi atomici e fini del mondo varie – che aveva colpito mio fratello, a me toccò in sorte l’era degli sport a squadre e delle bacchette magiche.
La mamma ha sempre detto che avevo un approccio di rielaborazione rispetto alla televisione, cioè che la guardavo e poi la facevo mia. Per esempio, giravo stagioni intere con lo stesso vestito proprio come i miei beniamini catodici, che non si cambiavano mai. Ero tutto un marinaretto, fiocchetti attorno ai calzini, stivali e bracciali di Wonder Woman anche sotto il solleone.
Naturalmente sono stato mille maghette e mi sono trasformato in ogni persona o cosa, ho avuto braccialetti, cerchietti, bacchette. Ogni peluche è stato il sidekick di innumerevoli avventure successe rigorosamente all’interno del perimetro del giardino della casa a forma di nave, trasformato di volta in volta in Tokyo, poi Tokyo, un’altra volta Tokyo e ancora Tokyo.
Sono stato Evelyn col cerchietto e lo sono ancora ogni volta che apro il freezer e vedo i critalli di ghiaccio. Sono stato May con lo strano braccialetto, che canto quando vedo uno specchietto da toletta, come un riflesso pavloviano. Poi Lulù con la passione per i fiori e il loro significato (“nel linguaggio dei fiori, il nasturzio vuol dire non arrendersi”) durata giusto fino a che non mi imbattevo in Lalabel, che scriveva i proverbi sul suo: “Caro diario, oggi ho imparato che chi la fa l’aspetti”…, non si sa a corollario di quale avventura vissuta tra il fosso con le pantegane e il bombolone del metano interrato, e via a comprare un quaderno apposta, che naturalmente abbandonavo dopo una facciata e mezzo. Sono stato Gigì col furgone volante, Sandy dai mille colori, Stilly lo specchio magico ma più di tutti sono stato, sono e sarò per sempre Yu.
Quando metto il culo sulla vespa sono Yu, che guidava uno strano scooter monoruota a cui si accompagnavano pattini a rotelle, che ho voluto e ottenuto per il primo Natale utile (sto parlando dei pattini, non, putroppo, dello scooter!).
Quando il cielo è un po’ nuvoloso sono Yu, che vede l’arca nel primo episodio.
Sono Yu ogni volta che ho in mano un bastone, che uso come bacchetta: da piccolo ne ho plasmate mille col Das, la speciale pasta argillosa simil pongo. La disegno ancora adesso, in alternativa agli occhi giganti, quando sono sovrappensiero.
Ogni volta che vado al karaoke e impugno un microfono sono Yu.
Sono Yu quando mangio le crêpe (mai più successo, dagli anni ’80).
Sono Yu quando entro in un bugigattolo, uno stanzino, un cesso per pisciare e, immancabilmente, in qualsiasi posto del mondo sia, parte la formula: Bacchetta! ─ tuuuu ─ pampulu pimpulu parimpampun… ─ e finché la mia pipì colpisce la porcellana io mi trasformo in Creamy.
Sono Yu quando archivio un sito tra i preferiti di Chrome e l’icona a forma di stella mi ricorda la seconda bacchetta.
Sono Yu quando faccio a piedi l’unico sovrapassaggio pedonale della città, che lei invece ne faceva 500 al giorno e non si capiva mai dove abitasse e andasse o perché nessuno si preoccupasse per lei. Dico, Cristo d’un Dio! Hai 10 anni!
Sono Yu quando vedo dei gattini che miagolano, e se sono appena nati suggerisco sempre di chiamarli Posi o Nega tra i punti di domanda generali.
Sono Yu quando ho in mano un cellulare a conchiglia, come il suo mitico medaglione, che restava attaccato alla gonna sfidando la legge di gravità.
Con il cellulare che uso adesso anche se sono in grado di rispondere lascio sempre che squilli a vuoto e poi richiamo perché la decorazione che appare sullo schermo con le chiamate entranti è esattamente somigliante alle bolle di sapone col cuore che gira che compare alla fine della sigla.
Ogni volta che piove e qualcuno tira fuori un ombrello, vengo immancabilmente riportato all’ultimo concerto di Creamy: mi sono laureato il 1 luglio del 2004 e ho preteso che il mio papiro di laurea, il cartellone che si usa nel Nordest per celebrare, cominciasse con “A vent’anni di distanza dalla scomparsa dell’incantevole Creamy si è laureato…”: Creamy è scomparsa il 30 giugno del 1984.
Ho voluto suonare il pianoforte in prima elementare solo perché così avevo la scusa per scarabocchiare innumerevoli chiavi di sol e di violino, il simbolo che Yu disegna in aria quando si trasforma in Creamy, anche se come unico retaggio rimasto da allora so suonare Telesette, Mai più risciacquo il secchio e – chettelodicoaffa’ – un intramontabile classico come la pasta Barilla.
Leggenda vuole che, per arrivare sulla Stella Piumata, basta saltare dentro una pozzanghera: quante lavatrici ha dovuto fare la mamma solo per gli orli dei pantaloni macchiati!
L’illustrazione qui sopra è stata realizzata in digitale con CLIP studio. Ultimamente mi piace esplorare svariate tecniche: se vuoi vederne altre, ne trovi di più sulla mia pagina Instagram.