40 ovvero la lettera C

  • Marzo 6, 2020

Ero indeciso se mandare la newsletter. Non tanto per difficoltà oggettive, quanto per scoramento. In queste settimane ho avuto la sensazione di quanto sia fragile questa nazione. Magari pronta a inventarsi qualcosa per superare il peggio ma sempre in emergenza, e senza capacità di valutazione razionale a tutti i livelli. Treni che deviano di 400 km perché un ufficio viabilità è stato chiuso. Fragilità nei mezzi di informazione, che prima hanno alzato il livello della paura per poi raccomandare di non farsi prendere dal panico, e poi si meravigliano che la gente faccia scorta, come se dal panico ingiustificato di Chernobyl (ma più di questo di sicuro) non fosse passato un secolo di informazione. Non voglio pensare ai danni che la modalità di comunicazione di questa cosa farà per il futuro del paese, e non solo del turismo.

Gianluca Diegoli, newsletter del 28 febbraio

“Beh, lavori in mutande, spero?”, mi risponde Serena dopo averle inviato la foto di Milo e me durante un giorno di lavoro che mangiamo pasta alla Norma a pranzo con tanto di spolverata di ricotta salata appena importata dall’Italia. Seduti al tavolo di casa, da dove entrambi adesso lavoreremo, per due settimane.

Penso che se il mio lavoro implicasse videochiamate non perderei l’occasione di fare davvero collegamenti in mutande, come una Cesara Buonamici qualsiasi.

Fino all’altro giorno pensavo che la quarantena fosse quel limbo di Avast, vent’anni fa o giù di lì, in cui mettevi i virus che si annidavano nel PC di casa perché non avevi ben capito cos’altro farne. 

Ci hanno messo in quarantena, ed è tutta “colpa” mia.

In Italia la settimana scorsa ci sono andato da solo. Il clima di quei giorni è stato surreale, assurdo, sospeso, distopico, spettrale. Ne sto pagando le conseguenze, non in termini di salute, ma di un certo ostracismo che fa emergere le paure più recondite dell’essere umano da una parte e alcuni suoi traumi indelebili dall’altra, anche se è solo una mia personalissima chiave di lettura. Milo è stato qui, ma lui si è autodenunciato come un kamikaze.

La sua azienda ha preso precauzioni prima della mia, chiedendo a tutti quelli che erano tornati da alcune regioni del mondo a rischio, tra cui, purtroppo, buona parte del Belpaese, o che vivono non chi c’è stato, di stare a casa per un periodo pari a 14 giorni.

Dove lavoro io, invece, sono stati più lenti. È vero che sul mio volo di ritorno da Venezia c’erano molti posti vuoti e gente con mascherina e guanti, ma all’arrivo ad Amsterdam nessuno mi ha fermato, o misurato la febbre o consultato, come invece hanno iniziato a fare per chi arrivava già 48 ore dopo.

Al mio ritorno in ufficio lunedì mattina sono stato richiamato nell’ufficio delle Risorse Umane, causa una colpa che non ho, cioé fare gli auguri a mio papà che vedo 4 volte l’anno, perché i miei colleghi sapevano che ero stato a Milano e, parole testuali, avevano paura. Ero improvvisamente Malaussene. Ero un capro.

Mi son sentito come quando alle elementari si parlava le prime volte di AIDS, noi bambini non avevamo idea di cosa fosse e un giorno una ragazzina più grande ha detto a un mio compagno di classe: “Ti dò un gelato se ti allontani da Carlo che ha l’AIDS”. Dopo avermi chiesto se pensavo di avere la febbre o di stare male, la responsabile delle risorse umane mi ha consigliato di non fare “pubblicità” del mio itinerario di piacere, ma mi è sembrato assurdo sapere che qualcuno mi additava come l’untore che porta la peste, o che non andasse in bagno dopo che ci ero andato io, o che non aprisse la lavastoviglie dopo che ci avevo riposto la mia tazza. C’è chi mi ha minacciato che se succedeva qualcosa al figlio e alla mamma mi sarebbe venuto a cercare “tra 14 giorni”. Insomma, non una bella sensazione.

Mi è tornata in mente quella volta in Canada che, solo perché indossavano tute diverse, mi sembrava che due gruppi di sconosciuti si comportassero come carcerieri e carcerati.

Ho chiesto direttive chiare dall’azienda e detto che avrei obbedito a quello che mi chiedevano, facendola però più grande di me. In azienda gli olandesi sono pochi e io italiano e volevo ricordare a quella delle RU, che è ungherese e che non c’entra nulla, l’onta del collaborazionismo che grava sopra questo paese ma me lo sono tenuto per me, mi rendo conto che sono temi che non c’entrano nulla. Ho però ovviamente pensato alla storia della lettera scarlatta: il risultato è che per tre ore sono stato paralizzato sulla mia sedia senza mai andare a farmi il caffé, roba che morivo, e che al primo starnuto mi sono vergognato come un ladro.

Il giorno dopo in azienda sono comparse in bagno le istruzioni per lavarsi le mani come insegna Barbara d’Urso, salvo che la carta del rotolone per asciugarle era finita.

Le direttive ufficiali sono arrivate 48 ore dopo, quando anche nei Paesi Bassi l’allerta è stata alzata e sono stato invitato ad andare a lavorare a casa, tra le proteste dei miei colleghi che mi avevano avuto vicino per due giorni interi: “Allora voglio andare a casa anch’io!”. Mentre intorno a me scoppiava il caos, ho eseguito la mia migliore versione di walk of shame, sono sgattaiolato via e prima di raggiungere Milo, sono passato dal panettiere. Che almeno ce la godiamo.

Una volta a casa, ho indossato la tuta delle migliori occasioni e ho messo su l’acqua per la pasta.

L’illustrazione qui sopra rappresenta il mio primo tentativo di utilizzo del software Procreate. Mi piace esplorare svariate tecniche: se vuoi vederne altre, ne trovi di più sulla mia pagina Instagram.